Quante volte abbiamo pensato alla
cioccolata come a una sorta di
antidepressivo o a una fetta di dolce come lenitivo per le delusioni
affettive ?
Il cibo può avere una funzione
consolatoria, una specie di “articolo di conforto” assumendo, a volte, un ruolo
importante nella gestione del disagio emotivo fino a prendere la forma di veri
e propri disturbi alimentari. Quando ci sentiamo insoddisfatti spesso si finisce
con il cercare qualcosa da mangiare. E’ vero che l’assunzione di cibo è
associata a un senso di piacere e golosità, ma questa importante componente che
caratterizza l’alimentazione degli esseri umani fin dalla nascita, non è
sufficiente a spiegare gli eccessi del mangiare; tanto più che questo
comportamento alimentare non si accompagna appieno ad assaporare ciò che si
mangia, bensì presenta una funzione puramente di “riempitivo interiore”. Siamo
stati progettati per mangiare per esigenze energetiche; perché allora alcune
persone sentono il bisogno di mangiare più del necessario ?
Siamo un’umanità malata di cibo,
dal troppo al troppo poco: dalla mancanza per sopravvivere alle malattie da
eccesso alimentare, alle troppe diete prive di fondamenti scientifici. E siamo
anche circondati da un ambiente che ci fa vivere il paradosso di essere sempre
più magri ma insieme di consumare di più. Esiste allora un punto su cui
lavorare? Certo che sì. Questa chiave di volta, anche se lunga e difficile, sta
in noi stessi. E’ opinione comune ritenere che possa esserci una correlazione
fra stati emotivi e alimentazione. Chi ha in testa costantemente il pensiero di
dimagrire, finisce per ingrassare sempre di più: il tormento di cosa mangiare
al mattino, a pranzo, l’ossessione del conto calorico, porta a far scattare
qualcosa che induce a divorare del cibo che possa darci l’emozione di piacere
e stimolo, spesso senza il senso di
fame. E più pensiamo al cibo da non assumere più il solo fatto di averci
pensato ci induce a desideralo e a mangiarlo. Il pensiero che buca la nostra
mente“oggi devo evitare certi cibi”è la miccia che innesca la bomba
“abbuffata”. Quindi azzeriamo la mente. Certo non tutti i soggetti reagiscono
alla stessa maniera quando iniziano ad affrontare uno stile alimentare diverso.
Quello che è sbagliato è parlare di diete, al plurale. Se non si soffre di una
patologia, non esistono diete, ma la dieta: ovvero lo stile di vita, ed è su
questo che tocca puntare. Non scivoliamo sulla “dieta miracolosa”, sui
medicinali che fanno perdere 15 chili in un mese e che invece condannano a un
eterno yo-yo e finiscono per deteriorare la salute. Perché il miglior
sistema per diventare obesi è seguire molte diete. Invece di mettere il nostro
corpo sulla bilancia mettiamoci le nostre emozioni. Non di certo si dimagrisce
con le imposizioni, mettendo lacci alla bocca o trasformando il cibo in un
oggetto da calcolare, misurare, valutare per le calorie che contiene. Non certo
fa bene diventare un robot dell’alimentazione. Cambiamo piuttosto
l’atteggiamento mentale, usciamo dai pensieri.
Il peggior modo per dimagrire è
seguire una dieta, ancor peggio se rigida e strampalata: nessuno dimagrisce con
gli obblighi e con le imposizioni. E lo sanno bene i professionisti della
salute: l’anamnesi alimentare resta uno dei punti salienti nell’affrontare un
percorso di rieducazione nutrizionale. Bisogna porre l’attenzione non tanto su
quanto il paziente mangia ma piuttosto su quali sono i momenti della giornata
in cui avverte maggiormente il bisogno di farlo, portandolo a individuare lo
stato emotivo in sottofondo. Nel caso in cui l’assunzione di cibo è motivata da
stati emotivi gli interventi volti principalmente a limitare o regolare
l’alimentazione rischiano di risultare improduttivi. Infatti il soggetto
avvertendo immutato il bisogno di mangiare può avere difficoltà a portare
avanti “la dieta” e talvolta può sentirsi deluso, avvilito a causa di questa
incapacità. La difficoltà a perdere peso viene percepita come un fallimento
personale, potenziando i vissuti che minano l’autostima. Risulta quindi ancora
più importante che i pazienti vengano orientati verso un approccio ai problemi
del sovrappeso che tenga conto dell’ingrediente emotivo per non far assumere al
paziente un ruolo passivo.
Per dirla in sintesi e
semplicisticamente: per dimagrire bisogna usare la testa e non la bilancia. Se
riduciamo la carica di ansia che accompagna il problema si facilita la perdita
di chili; aumenta l’autostima, si impara a dire di no, a controllarsi
maggiormente, ad accettare l’idea che le ricadute siano inevitabili e non
debbano essere percepite come fallimenti che automaticamente generano i sensi
di colpa. I nostri istinti primari non possono essere spenti come un
interruttore. Le nostre emozioni hanno origine da stimoli esterni, ma siamo noi
i veri responsabili delle nostre reazioni emotive, anche se molto spesso siamo
abituati a scaricare la responsabilità sugli eventi esterni. Quello che fa
soffrire una persona o la fa abbuffare può far restare indifferente un’altra.
Reagiamo in un certo modo perché siamo condizionati dai nostri schemi mentali e
questi schemi li applichiamo automaticamente e li rafforziamo quotidianamente.
Questo significa agire per automatismi e ognuno di questi impedisce di vedere
le cose da punti di vista diversi. Ci ingessa, ci cristallizza e ci impedisce
di essere flessibili e senza pregiudizi. Quindi è importante riconoscere ed
esprimere in modo congruo le nostre emozioni, imparando a gestire i fenomeni
neurovegetativi che da esse scaturiscono decidendo se e quale azione deve dar
seguito all’attivazione emozionale e quindi al comportamento. Non possiamo
resettare il nostro cervello dall’oggi al domani come fosse il disco rigido di
un computer, possiamo solo lavorare con un percorso interiore, ogni giorno e
con tranquillità, affidandoci a chi non ci promette metodi facili e drastici
per dimagrire.
Come diceva il premio Nobel per
la medicina Joseph Goldstein: ”Non puoi fermare le onde, ma puoi imparare a
cavalcarle”.
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